COME ERAVAMO...PERSONAGGI REGGINI : 'U ZZI' MILIU CACCIATURI di Salvatore Marrari
Viva la caccia, abbasso la caccia...non è questo che ci interessa nel racconto che segue, ma le storie che il caro e vecchio zio Emilio Marrari, fratello di mio padre, ci raccontava quando ci riunivamo a casa della sorella Annina maritata in seconde nozze a Ciccio Cara, personaggio esuberante, allegro e, per certi versi, fantastico, chef di professione, trasformista e ipnotizzatore in piccoli spettacoli del Rione Ferrovieri degli anni ’30. Dunque questo grande e preciso punto di riunione per fratelli, sorelle e nipoti, era come un’abitazione da “mecenate” ove si privilegiavano le arti di taglio e cucito(la zia ne era una specialista), di poesia e cultura(per i poeti che frequentavano Don Matteo Paviglianiti), di musica (per il complesso che provava e riprovava, nel cortile, sede estiva e nel salone, sede invernale, organizzato da mio cugino Umberto Cara, lui alla chitarra battente, Tanino Campolo alla fisarmonica, Ninu Autellitano’( ‘u scarparu, detto Naschiareddha) alla batteria e Cecè Manti alla chitarra accordante. Erano i primi anni '50 e la zia oltre che avere, in Via Macello, quasi sotto le scalette del Ponte Calopinace, una casa spaziosa con un grande cortile, aveva uno dei primi televisori giunti a Reggio Calabria, il primo nel Rione Ferrovieri ed il terzo nella città(gentile dono del genero imprenditore padovano Beppe Fasolo), per cui tutti ci si riuniva in massa, portando al seguito borse di cibi vari e bevande sopraffine, sin dal tardo pomeriggio e fino a che il piccolo schermo, dopo aver lautamente cenato e dopo aver visto il LASCIA O RADDOPPIA di Mike Bongiorno o il TELEMATCH di Enzo Tortora, non ci dava l’ultima visione consistente in immagini di nuvole che scorrevano con la fatidica scritta : RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA - FINE DELLE TRASMISSIONI. Come dianzi accennato, questa era anche la casa del nostro prozio Matteo Paviglianiti e della di lui sorella, mia nonna paterna, Antonia Paviglianiti Marrari. Ciò da’ l'idea di quanto fosse, veramente, un’abitazione patriarcale dove, tra un chiacchiericcio, una critica, tanti pettegolezzi, un tresette e una briscola, i racconti del buon zio Emilio erano al centro dell'attenzione di noi tutti ragazzi e ragazzini del casato. Si da’ il caso che il parente era stato in Africa Orientale nel periodo bellico, con la qualifica di motorista e collaudatore pilota di aerei, e si da’ anche il caso che la sera di ogni martedì(se non vado errato dal 7 febbraio 1956 sino a tutto il 1964) il piccolo video mandava in onda una trasmissione di zoologia, "L'AMICO DEGLI ANIMALI", condotta dal famoso Angelo Lombardi, Bianca Maria Piccinino e l'aiutante ascaro, Andalù, preposto a prendere o rimettere animaletti e serpenti in gabbia( da qui ebbe origine la frase : Andalù portalo via), allora, di riflesso e con la spinta maturata dai ricordi, partivano i racconti che si coglievano dalla dolce bocca dello zio che s’intrecciavano su battute di caccia e speciali safari con le ampie e dettagliate spiegazioni sulle abitudini degli animali e gli uccelli della savana mentre , noi tutti, pendevamo da quelle labbra su cui, ogni tanto poggiava il giro di un bicchiere colmo di vino, che veniva bevuto e sorseggiato a piccole quantità, insomma l'ambiente era caldo, tranquillo, allegro. D’inverno il riscaldamento era prodotto da svariate "conche di braciere" con poggiapiedi in legno, attorno ai quali ci si sedeva, facendo a gara che si capitasse più vicino possibile a quella cara persona che ci faceva sognare con i suoi polposi e lunghi racconti di guerra e di caccia grossa , simili alla favola di “Tartarin di Tarascona alla caccia dei leoni” dello scrittore francese Alphonse Daude. Ma Emilio Marrari, di fatto, era un vero cacciatore, ma di uccellini e piccola selvaggina e, quando si liberava dal servizio ferroviario(macchinista delle gloriose FS con la bella divisa grigia e le mostrine argentate), senza tante pretese, a piedi o in bicicletta, transitava a fianco dei binari del treno verso il sud della città, non ancora popolata se non da case coloniche e grandi orti coltivati a fave, piselli, melanzane, pomodori e peperoni, portandosi sotto il muro del Torrente Sant'Agata, aspettando la passa o " 'a bbulata ri' cucciardi "(le allodole) o dei tanto desiderati " adorni "(i falchi) che il piccolo aereo da turismo del glorioso Aereoclub locale, l'unico per quei tempi, faceva disperdere e volare dai prati attigui alla pista di decollo. Quello era un momento cruciale, si bisbigliava : " I bbulau...alliccà...jasa 'i canni "(le ha volate...eccole qua...alza le canne) e dopo che le mirate scariche di doppiette erano esplose, arrivava, puntuale, lo scherno di chi aveva colto qualcosa verso coloro che, invece, "avivunu fattu sulu bumbula"(avevano fatto solo bum bum). Lo zio era tra questi, schernitori o scherniti, e spesso con lui, c'eravamo anche noi, ragazzi al seguito, con il compito di portatori, non di selvaggina, ma delle pesanti borse con le cartucce, aspettando il momento che " 'u zziu ndi faciva sparari cacchi botta " ( lo zio ci facesse sparare qualche colpo). Si era quasi alla foce del torrente per cui l'alveo era grandissimo e li, in mezzo, preparavamo il campo di tiro con le sagome da colpire...bastoni di vecchie scope abbandonate con in cima " 'na buatta i cunserva"(l'involucro del tanto amato concentrato di pomodoro Cirio) ed, a turno, imbracciando la doppietta calibro dodici, sulle cui canne lo zio aveva inciso*, con le sue proprie mani, una bella e precisa rosa, si sparava "ai leoni e alle gazzelle" che l'amato parente, ci aveva tanto inculcato nella mente facendoci sognare, appunto, di essere a nostra volta i Tartarin della situazione. Spesso il vento, il famoso libeccio che soffia da sud-ovest, che dalle nostre parti non è raro soffiare, ci impediva di fare bottino e, altrettanto impediva a noi ragazzini il posizionamento " ri landi 'i sparari " ( delle lande da colpire), quelle “sagome” già dianzi citate, allora si ripartiva, a piedi, per un malinconico ritorno a casa, giocoforza, rifacendo a ritroso il percorso sul viottolo che costeggiava i binari, per uscire e imboccare la strada principale, da un passaggio a livello custodito che portava su di una viuzza (oggi viale Aldo Moro o Viale V° come dir si voglia), sulla cui massicciata di pietre laviche, attigua alla sbarra, v'era un'osteria " DA ANGELO NERI ", il cui proprietario, probabilmente, e il ferroviere assuntore a guardia di quell'attrezzo che impediva il passaggio, erano la stessa persona che faceva, come si dice a Reggio, "Casa e Putìa"(casa e bottega). Era questo il posto dove tutti i cacciatori sconfitti, sconfitti si fa per dire, si ritrovavano a spararle grosse tra " 'nu bicchereddhu 'i vinu, 'nu biscotteddhu 'i ranu, cacchi pumaroru sicca, ddu mulingiani salati e 'na ffetticeddha 'i furmaggiu musciu "( tra un bicchierotto di vino, un biscotto di grano, qualche pomodoro secco, due melanzane in salamoia e una fettina di formaggio pecorino molle); lo zio in prima fila, calmo e placido, non restava mai indietro e rimescolava i suoi racconti di guerra ai safari africani, alta, distinta, geniale caccia grossa, allorché la Patria l'aveva mandato in quella parte d'Africa, lui proprio lui che, adesso, sparava le sue bombe oltre che a noi nipoti, anche a quei poveri, esterrefatti e indifesi astanti che le conoscevano una ad una, per averle sentite più volte, quelle sue veloci scorribande a bordo delle auto militari, nella grandissima e infinita savana. Ma più grandi erano le balle che lui, sornione e con gusto, poggiava sul tavolino di Angelo Neri, prendendo tutti in giro, tra i bicchieri vuoti o semivuoti che aspettavano di essere riempiti con la classica " bucaletta " da un litro e mezzo che l'oste poggiava sempre al centro del tavolo e “dintra ‘a spasa r’acciaju”(dentro il vassoio d’acciaio). Ma qualcuno che aveva capito l'antifona, menata con arte dal nostro caro zio, ancor più sornione del fine dicitore e per farlo "tornare in Italia", sbottava : " Don Mìliu, mentimu 'i peri nterra, comu mai oggi non sparastuvu nenti, mancu 'na pinna ?" (Signor Emilio, poggiamo i piedi a terra, come mai oggi non avete sparato nulla, neanche una penna) E lui, di rimando, ridendo sotto i neri baffetti :" Caru meu...libbici mai bbeni fici ! "(Caro mio...il libeccio non porta beneficio). Per promemoria e per amore di cronaca, chi seguiva lo zio sotto il muro dell'aeroporto, eravamo io, mio fratello maggiore Antonio detto Mimmo, nostro cugino Umberto Cara e Mimmo figlio del medesimo zio cacciatore; in qualche rara occasione ci seguiva lo zio Amedeo Marrari, fratello maggiore di Emilio e di mio padre, per il quale mi riservo di immortalare la sua degna e pacata persona in altra eventuale scrittura.
Chissà, ancora oggi, quante balle vengono raccontate dai cacciatori reggini o pseudo tali, equipaggiati in modo migliore, con attrezzature speciali e fucili a più colpi e non "rranciati" come quello * di zio Emilio e dei suoi amici. Certamente le sparano, se non più grosse, con egual calibro di quelle che in ogni tempo furono e saranno sempre sciorinate a…ripetizione, come i colpi dei loro buttafuoco modello "Rifle" e senza essere stati mai in Africa Orientale.
*( Emilio Marrari riparava da se i fucili, ricostruiva i pezzi metallici, riusciva persino a fabbricarsi le canne d'acciaio usando il tornio e le attrezzature del Deposito Locomotive di Rione Pescatori, ove era ed è tutt'ora, alquanto malconcio e dismesso, ubicato, le progettava talmente precise e levigate che non avevano nulla di cui “vergognarsi” al cospetto delle famosissime tedesche Essen)
Reggio Calabria 23 maggio 2012 ore 16,55