PERSONAGGI REGGINI DI UN TEMPO
CHE FU… MATTEO PAVIGLIANITI
(Reggio Calabria 11 maggio 2012)
L'indimenticato (per noi parenti, ma non per la cittadinanza reggina) Matteo Paviglianiti (1/5/1874 - 11/11/1956) ha dedicato la sua vita al lavoro di barbiere, alla poesia dialettale ed all'allora emergente politica socialista. Autodidatta, ma fine dicitore e filosofo, cantore in positivo delle realtà, delle identità e delle consuetudini reggine, Matteo era un fedele, non ecclesiastico, del buon Dio, presente in ogni suo verso. Le sue pubblicazioni, oggi conservate alla biblioteca comunale della città, sono "U specchiu d’a vita"(1938) e "Lacrimi"(1933). Fu tra gli otto fondatori del Partito Socialista di Reggio Calabria che, per motivi di sicurezza, lo chiamarono “cooperativa”. I suoi amici e cofondatori furono Alfredo Tripepi, Giovanni De Maria, Francesco Romeo, Sangrì, Giovanni Crea, Bruno Surace (presidente) e Nino Spanò, lui medesimo ne era il cassiere. Si riunivano in clandestinità, appunto, come cooperativa "La Vittoria" e, successivamente, dopo il 1918, "Vittorio Veneto" nella "Piazzetta", oggi "Piazza Italia"(era il 1914). Il suo salotto era quella parte del Corso Garibaldi che va dal ponte Calopinace sino a Piazza Camagna; anche il suo negozio lo fu ed era sito in Via Apromonte n° 10 (la strada che da piazza Garibaldi porta alla scuola elementare E. De Amicis). Qui, nel suo salone, nel Bar Giorgio, famoso per un pupazzo attaccato all’ingresso che con la lingua fuori leccava un finto cono gelato ('u bar du' pupu chi ddhiccava 'u gelatu), presso la casa delle bibite "Quattrone", rinomata per le sue gassose chiuse a pressione da una pallina (i' cazzusi ca' pallina) e nel bar Margheriti, tutti e tre di fronte alla Villa Comunale Umberto Primo, s'incontravano gli intellettuali del tempo. Il poeta veniva attorniato da giovani emergenti quali : Nicola Giunta (4 /5/1895 - 31/5/1968), prima baritono d'opera), Franco Saccà, Domenico Martino, Giuseppe Morabito, Gaetano Cingari, i due professori, cugini, Francesco De Stefano (detto Ciccio barbitta) e Domenico De Stefano (insegnate di lettere e filosofia), autore, tra l'altro, di una prima recensione sul poeta scritta nel 1949 intitolata "La poesia di Matteo Paviglianiti". Con Nicola Giunta, ventuno anni più giovane, era nata un’amicizia seria e burlona, caratterizzata da una serie di aneddoti, che durò quasi mezzo secolo, sino alla morte del poeta.
Occasione ultima di Giunta e Cingari, per recitarne le virtù nel discorso di estremo saluto per l'amico e ispiratore, la’, in Piazza Castello, dove i compagni socialisti avevano portato ed accompagnato il feretro da Via Macello superando il Calopinace (abitazione del defunto ), percorrendo quella parte di Corso Garibaldi che era stata il "Salotto di Don Matteo". Tutti i proprietari degli esercizi pubblici della strada, al suo passaggio, chiusero i negozi in segno di lutto, commentando, qualcuno in lacrime, la perdita di un grande amico, un grande uomo che usava verseggiare incontrandoli. Tengo a raccontare che il prete protempore, della vecchia e baraccata chiesa del Sacro Cuore di Gesù di Via Galileo Galilei, non volle benedire la salma, ne officiare i servizi funebri perché il defunto era un socialista. Furono i compagni di partito a dirottare il feretro, trainato da carrozza e cavalli, che senza aver cura delle proteste dell'uomo, conosciuto come ‘U CAVIALI, che stava a cassetta. Realizzarono una pacifica protesta alla chiesa cattolica, fermando la bara con una sosta di pochi minuti di fronte alla cattedrale, tale da sembrare una scena da film…tipo "Don Camillo e l'Onorevole Peppone". Erano di quelle cose che, facilmente, accadevano nella vita pratica di quel tempo, ma senza alcuna violenza, perché i partiti socialcomunisti erano considerati dalla chiesa di Roma eretici e fuori dalla legge di Dio. Sta di fatto che per Matteo Paviglianiti fu come una seconda e ultima purga"; fu punito in vita e in morte, dal fascismo prima e nel suo trapasso. A questo punto, è d’obbligo raccontare perché fu costretto ha ingerire l’olio di ricino, sorbendolo, assieme a Nicola Giunta; i fatti avvennero come qui di seguito descrivo…Si trovavano entrambi nei pressi di Piazza Garibaldi insieme ad altri amici intellettuali e di partito, quando un’automobile di colore nero, Fiat Balilla, bloccò loro il passo, ne scesero alcuni fanatici con “camicie a lutto" (così, Don Matteo, definiva quel modo di vestire) e il più "ardito" tra loro, certo Pitea, intimò solo a loro due, ritenuti capi ribelli, di salire in macchina che li avrebbero portati a “banchetto” invitati presso la Federazione di Piazza del Popolo. Matteo e "Nicolazzu" (così Don Matteo usava chiamare l'amico Giunta) si guardarono in faccia con tutta la rabbia che quegli individui avevano loro stimolato e, non potendo far altro, si arresero, avendo capito il progetto quindi si accomodarono sui sedili posteriori dell'auto. Furono portati davanti al federale Paolo Quarantotto, trasferito a Reggio per dare una svolta al lassismo ed alla disubbidienza dei cittadini, fu dato loro il classico bicchiere da quarto colmo di olio di ricino, servito con un ghigno proprio dal fanatico Pitea. Il carattere opposto dei due "invitati" segnò due reazioni diverse, il buon Matteo Paviglianiti, sornione e attento, sorseggiava il liquido come se stesse bevendo del buon vino rosolio, Nicola Giunta lo mandò giù tutto d'un fiato e, strabuzzando gli occhi per la nausea, sbottò con la frase rimasta famosa nel tempo : "Avete purgato il mio corpo, non il mio spirito" e, osservandolo Don Matteo, contrariato per la soddisfazione che stava dando agli astanti, a sua volta sibilò con un tono di stizza : Ma quantu si fissa ! (ma quanto sei fesso) Era il 31 maggio 1940. Dopo tanti anni dalla scomparsa, alcuni reggini lo ricordano ancora per quello che il poeta era stato: un uomo mite, nobile d’animo, buono e solo coi suoi pensieri di gioventù, quando aveva amato Elena Stracuzzi. La gentil donna che lo ricambiava, ma costretta dalla famiglia, a maritarsi ad un sottufficile di cavalleria ed a vivere a Pinerolo, città in cui era di stanza il reggimento del coniuge. Questo, tra gli altri suoi dolori, guerre e terremoto del 1908, che gli fecero perdere parte dei suoi familiari, lo resero cardiopatico; non sposò, ma tenne, perennemente, nella sua cameretta la piccola foto della donna che non aveva mai dimenticato. Più volte gli fu domandato il perché non si fosse accasato e, molto pacatamente, rispondeva che la sua prima e unica fidanzata era morta di tisi e lui aveva inteso renderle onore rimanendole devoto sino alla morte.
Nel 1960, Elena, rimasta vedova, ritornò a Reggio Calabria, presso parenti, e lo cercò nel salone di barbiere dove probabilmente aveva lasciato i suoi ricordi. Ma l’esercizio era ormai gestito dal di lui nipote Domenico Marrari, mio padre; non può far altro che constatare che il suo Matteo era già passato a miglior vita e, tristemente delusa, racconta sedendosi, la storia del loro amore impedito dalla volontà paterna.
Il tempo affievolì i dolori di Don Matteo, un uomo di grande energia e mentalmente aperto al mecenatismo, dall'aspetto pirandelliano che fece sempre il possibile per aiutare anche finanziariamente chiunque volesse intraprendere una carriera di scrittore. Alla sua morte, avvenuta l’11 novembre 1956, fu trovato un biglietto sul comodino della sua camera con queste ultime parole : " Amore, carità e perdono furono la mia fede", parole che si possono leggere, ancora oggi, sullo sbiadito marmo della sua tomba nel cimitero di Condera in Reggio Calabria e che fece incidere suo nipote, mio padre, Domenico Marrari . Matteo Paviglianiti era il fratello di mia nonna Antonia Paviglianiti Marrari. Curioso fu il luogo della sua morte, morì seduto sul gabinetto del bagno colto dal malore che lo attanagliava già da due giorni, la sua cardiopatia trasformatasi in un infarto. Don Matteo se ne andò povero come era nato, nell’umiltà che fu la caratteristica della sua vita e, ora, mi vengono in mente alcuni versi di una sua poesia “A CASA UNDI NASCIA”…
……….
‘Na stanzetta scura, scura,
ch’era priva puru ‘i luci,
niri niri ‘i quattru mura
cu ‘nu Cristu misu ‘a cruci.
‘Na buffetta, un letticeddhu,
un barò cu la me’ svigghia,
quattru seggi, un tavuleddhu:
rrobba vecchia di famigghia.
…….
Salvatore Marrari
CHE FU… MATTEO PAVIGLIANITI
(Reggio Calabria 11 maggio 2012)
L'indimenticato (per noi parenti, ma non per la cittadinanza reggina) Matteo Paviglianiti (1/5/1874 - 11/11/1956) ha dedicato la sua vita al lavoro di barbiere, alla poesia dialettale ed all'allora emergente politica socialista. Autodidatta, ma fine dicitore e filosofo, cantore in positivo delle realtà, delle identità e delle consuetudini reggine, Matteo era un fedele, non ecclesiastico, del buon Dio, presente in ogni suo verso. Le sue pubblicazioni, oggi conservate alla biblioteca comunale della città, sono "U specchiu d’a vita"(1938) e "Lacrimi"(1933). Fu tra gli otto fondatori del Partito Socialista di Reggio Calabria che, per motivi di sicurezza, lo chiamarono “cooperativa”. I suoi amici e cofondatori furono Alfredo Tripepi, Giovanni De Maria, Francesco Romeo, Sangrì, Giovanni Crea, Bruno Surace (presidente) e Nino Spanò, lui medesimo ne era il cassiere. Si riunivano in clandestinità, appunto, come cooperativa "La Vittoria" e, successivamente, dopo il 1918, "Vittorio Veneto" nella "Piazzetta", oggi "Piazza Italia"(era il 1914). Il suo salotto era quella parte del Corso Garibaldi che va dal ponte Calopinace sino a Piazza Camagna; anche il suo negozio lo fu ed era sito in Via Apromonte n° 10 (la strada che da piazza Garibaldi porta alla scuola elementare E. De Amicis). Qui, nel suo salone, nel Bar Giorgio, famoso per un pupazzo attaccato all’ingresso che con la lingua fuori leccava un finto cono gelato ('u bar du' pupu chi ddhiccava 'u gelatu), presso la casa delle bibite "Quattrone", rinomata per le sue gassose chiuse a pressione da una pallina (i' cazzusi ca' pallina) e nel bar Margheriti, tutti e tre di fronte alla Villa Comunale Umberto Primo, s'incontravano gli intellettuali del tempo. Il poeta veniva attorniato da giovani emergenti quali : Nicola Giunta (4 /5/1895 - 31/5/1968), prima baritono d'opera), Franco Saccà, Domenico Martino, Giuseppe Morabito, Gaetano Cingari, i due professori, cugini, Francesco De Stefano (detto Ciccio barbitta) e Domenico De Stefano (insegnate di lettere e filosofia), autore, tra l'altro, di una prima recensione sul poeta scritta nel 1949 intitolata "La poesia di Matteo Paviglianiti". Con Nicola Giunta, ventuno anni più giovane, era nata un’amicizia seria e burlona, caratterizzata da una serie di aneddoti, che durò quasi mezzo secolo, sino alla morte del poeta.
Occasione ultima di Giunta e Cingari, per recitarne le virtù nel discorso di estremo saluto per l'amico e ispiratore, la’, in Piazza Castello, dove i compagni socialisti avevano portato ed accompagnato il feretro da Via Macello superando il Calopinace (abitazione del defunto ), percorrendo quella parte di Corso Garibaldi che era stata il "Salotto di Don Matteo". Tutti i proprietari degli esercizi pubblici della strada, al suo passaggio, chiusero i negozi in segno di lutto, commentando, qualcuno in lacrime, la perdita di un grande amico, un grande uomo che usava verseggiare incontrandoli. Tengo a raccontare che il prete protempore, della vecchia e baraccata chiesa del Sacro Cuore di Gesù di Via Galileo Galilei, non volle benedire la salma, ne officiare i servizi funebri perché il defunto era un socialista. Furono i compagni di partito a dirottare il feretro, trainato da carrozza e cavalli, che senza aver cura delle proteste dell'uomo, conosciuto come ‘U CAVIALI, che stava a cassetta. Realizzarono una pacifica protesta alla chiesa cattolica, fermando la bara con una sosta di pochi minuti di fronte alla cattedrale, tale da sembrare una scena da film…tipo "Don Camillo e l'Onorevole Peppone". Erano di quelle cose che, facilmente, accadevano nella vita pratica di quel tempo, ma senza alcuna violenza, perché i partiti socialcomunisti erano considerati dalla chiesa di Roma eretici e fuori dalla legge di Dio. Sta di fatto che per Matteo Paviglianiti fu come una seconda e ultima purga"; fu punito in vita e in morte, dal fascismo prima e nel suo trapasso. A questo punto, è d’obbligo raccontare perché fu costretto ha ingerire l’olio di ricino, sorbendolo, assieme a Nicola Giunta; i fatti avvennero come qui di seguito descrivo…Si trovavano entrambi nei pressi di Piazza Garibaldi insieme ad altri amici intellettuali e di partito, quando un’automobile di colore nero, Fiat Balilla, bloccò loro il passo, ne scesero alcuni fanatici con “camicie a lutto" (così, Don Matteo, definiva quel modo di vestire) e il più "ardito" tra loro, certo Pitea, intimò solo a loro due, ritenuti capi ribelli, di salire in macchina che li avrebbero portati a “banchetto” invitati presso la Federazione di Piazza del Popolo. Matteo e "Nicolazzu" (così Don Matteo usava chiamare l'amico Giunta) si guardarono in faccia con tutta la rabbia che quegli individui avevano loro stimolato e, non potendo far altro, si arresero, avendo capito il progetto quindi si accomodarono sui sedili posteriori dell'auto. Furono portati davanti al federale Paolo Quarantotto, trasferito a Reggio per dare una svolta al lassismo ed alla disubbidienza dei cittadini, fu dato loro il classico bicchiere da quarto colmo di olio di ricino, servito con un ghigno proprio dal fanatico Pitea. Il carattere opposto dei due "invitati" segnò due reazioni diverse, il buon Matteo Paviglianiti, sornione e attento, sorseggiava il liquido come se stesse bevendo del buon vino rosolio, Nicola Giunta lo mandò giù tutto d'un fiato e, strabuzzando gli occhi per la nausea, sbottò con la frase rimasta famosa nel tempo : "Avete purgato il mio corpo, non il mio spirito" e, osservandolo Don Matteo, contrariato per la soddisfazione che stava dando agli astanti, a sua volta sibilò con un tono di stizza : Ma quantu si fissa ! (ma quanto sei fesso) Era il 31 maggio 1940. Dopo tanti anni dalla scomparsa, alcuni reggini lo ricordano ancora per quello che il poeta era stato: un uomo mite, nobile d’animo, buono e solo coi suoi pensieri di gioventù, quando aveva amato Elena Stracuzzi. La gentil donna che lo ricambiava, ma costretta dalla famiglia, a maritarsi ad un sottufficile di cavalleria ed a vivere a Pinerolo, città in cui era di stanza il reggimento del coniuge. Questo, tra gli altri suoi dolori, guerre e terremoto del 1908, che gli fecero perdere parte dei suoi familiari, lo resero cardiopatico; non sposò, ma tenne, perennemente, nella sua cameretta la piccola foto della donna che non aveva mai dimenticato. Più volte gli fu domandato il perché non si fosse accasato e, molto pacatamente, rispondeva che la sua prima e unica fidanzata era morta di tisi e lui aveva inteso renderle onore rimanendole devoto sino alla morte.
Nel 1960, Elena, rimasta vedova, ritornò a Reggio Calabria, presso parenti, e lo cercò nel salone di barbiere dove probabilmente aveva lasciato i suoi ricordi. Ma l’esercizio era ormai gestito dal di lui nipote Domenico Marrari, mio padre; non può far altro che constatare che il suo Matteo era già passato a miglior vita e, tristemente delusa, racconta sedendosi, la storia del loro amore impedito dalla volontà paterna.
Il tempo affievolì i dolori di Don Matteo, un uomo di grande energia e mentalmente aperto al mecenatismo, dall'aspetto pirandelliano che fece sempre il possibile per aiutare anche finanziariamente chiunque volesse intraprendere una carriera di scrittore. Alla sua morte, avvenuta l’11 novembre 1956, fu trovato un biglietto sul comodino della sua camera con queste ultime parole : " Amore, carità e perdono furono la mia fede", parole che si possono leggere, ancora oggi, sullo sbiadito marmo della sua tomba nel cimitero di Condera in Reggio Calabria e che fece incidere suo nipote, mio padre, Domenico Marrari . Matteo Paviglianiti era il fratello di mia nonna Antonia Paviglianiti Marrari. Curioso fu il luogo della sua morte, morì seduto sul gabinetto del bagno colto dal malore che lo attanagliava già da due giorni, la sua cardiopatia trasformatasi in un infarto. Don Matteo se ne andò povero come era nato, nell’umiltà che fu la caratteristica della sua vita e, ora, mi vengono in mente alcuni versi di una sua poesia “A CASA UNDI NASCIA”…
……….
‘Na stanzetta scura, scura,
ch’era priva puru ‘i luci,
niri niri ‘i quattru mura
cu ‘nu Cristu misu ‘a cruci.
‘Na buffetta, un letticeddhu,
un barò cu la me’ svigghia,
quattru seggi, un tavuleddhu:
rrobba vecchia di famigghia.
…….
Salvatore Marrari
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