martedì 22 novembre 2016

LA "GROTTA"...OSTERIA "NTO MINDU" - VITA DI RIONE NELLA BELLA REGGIO CALABRIA DEGLI ANNI '50



Quando ragazzino andavo col nonno a comprare le caldarroste in un chiosco fisso, ci fermavamo ad aspettare la cottura sotto quella pensilina di lamiere, nella discesa di Via Carcere Nuovo di Reggio Calabria, praticamente all'inizio della breve strada alberata che conduce all'ingresso delle carceri reggine (vedi ricostruzione fotografica con Paint foto) ; il proprietario del piccolo esercizio era chiamato Don Luigi (disconosco il cognome, ma dire Don Luigi, a quei tempi, bastava per riconoscere chi fosse nel Rione San Pietro di Sbarre Centrali). L'odore forte e l'attesa rilanciavano nel cuore un amore profondo per quegli attimi di sana gioia. Qualche volta la pioggia di novembre si affacciava a dare il suo saluto e allora ci si riparava sotto quella tettoia di lamiera dianzi nominata. Il rumore gradevole delle gocce, l'odore, il riparo fortuito e la futura scorpacciata, ti facevano sentire il ragazzino più ricco della terra con un nonno a fianco che ti dava sicurezza, anche perché la serata si concludeva nell’osteria denominata "la Grotta", cui proprietario era Don Pepè, detto ‘U Mindu, e con gli amici del "gran genitore". Queste piccole cose ti facevano sentire già un uomo, ma ciò su cui desidero soffermarmi è il ricordo di quei tempi magnifici, del nonno Salvatore Minuto, vedovo dal 1948, e le serate trascorse con lui dentro quell'osteria ('a putia ru vinu, 'a Grotta) e, ripeto, con i suoi amici del cuore. 
Chi era Don Pepé ? Chi era "Peppi 'u Mindu ? A memoria dei racconti di allora, so che la parola dialettale "mindu" vuole significare di una persona con l'orecchio tagliato o, comunque, deformato; era quindi attribuita a questo personaggio, l'oste ('u putiaru), il cui vero nome era Giuseppe Fascì. Ma andiamo con ordine, Peppe era stato il nonno e adesso il nipote, quest'ultimo conosciuto da me in quei favolosi anni '50. Mi è stato raccontato che il primo Giuseppe Fascì era chiamato " 'U Capitanu" e fu colui che aprì il piccolo esercizio verso la metà del 1800 e da Capitanu passò ad essere  denominato "Mindu", probabilmente per le sue orecchie aguzze o perché ne aveva avuta qualcuna tagliata (c'era questa usanza nel mondo dei malandrini di allora che non si facevano certo poggiare una mosca sul naso). La produzione del vino era propria e la discendenza ha sempre continuato a trasformare i rinomasti mosti nel buon "nettare" di Bacco, un brillante rosso rubino dal gusto gradevolissimo, qualche volta frizzantino naturale, a seconda della qualità delle uve che venivano rigorosamente pestate in loco, secondo la tradizione, a piedi scalzi. Lo dico e lo ribadisco perché fui testimone oculare di quella lavorazione e il ricordo di quell'ambiente è ancora vivo negli occhi e nella mente, addirittura, scrivendo, ne sento gli odori e il sapore. Vedo chiaramente i personaggi, quasi sempre clienti abituali, che si avvicendavano in quelle sere ch'ero ospite del nonno, ma ricordo principalmente il fascino che i proprietari emanavano nella mia mente di ragazzino, otto o nove anni, nel vederli sorridenti, ossequiosi, calmi nel servire ai tavoli e, principalmente, nel sentirli vicini in maniera intrinseca perché erano compari del nonno e li ritenevo, appunto, anche compari miei. Mi avevano insegnato che il comparato si rispettava più di una parentela e, si diceva, quando si creavano questi rapporti tramite un battesimo o con una cresima o un semplice compare d'anello, si creava " 'U San Giuvanni" (il San Giovanni), probabilmente un legame santificato alla stregua di un sincero giuramento legato alla religione. Da questo comparato coi vecchi Fascì, ebbi l'onore e la conoscenza della loro genealogia. Presenti ai miei occhi e legati vivamente ai ricordi, ci sono Cumpari Giuvanni (compare Giovanni) figlio di Giuseppe detto "U Capitano", la sua vecchia consorte "Cummari Cuncetta" (comare Concetta) dagli occhi lacrimosi e molto attenta alle riscossioni, Pepé (Giuseppe) il di loro figlio svelto nel servire, altissimo e con le orecchie aguzze, insomma "Mindu" come il nonno e, come il nonno 'U Capitano, era anche lui detto "Peppi 'u Mindu", mi si scusi il bisticcio di parole. Un aiutante a servire, nonché addetto alle mescite dalle enormi botti inquadrate e sistemate una sull'altra, in ordine di invecchiatura del polposo liquido, c'era anche Giorgio, un loro nipote non ancora ventenne, dagli occhi rossi per una probabile congiuntivite che lo faceva apparire come fosse sbronzo, a ciò contribuiva anche la lentezza nei movimenti, ma se richiamato "Giorgi...moviti", improvvisamente, pareva svegliarsi anche ai continui solleciti degli avventori che chiedevano il riempimento della originale "bucaletta"(anfora d'argilla cotta e smaltata con manico). Che bell'ambiente era quella cantina ! Si beveva, si mangiava "u suffritteddhu" (trippe lavate da comare Concetta e cucinate in una maniera particolare); su ordinazione, " 'U pisci stoccu" (lo stoccafisso) cucinato alla marinara e su cui si poggiava ben volentiri il rosso chiaretto di quelle botti in bella vista. Oggi mi domando, ripensando alla vecchietta dagli occhi lacrimosi, cummari Cuncetta, quanto pulite fossero quelle pietanze che agli occhi di quel fanciullo erano paradisiache, con un nonno accanto che ti carezzava e si premurava di farti mangiare (non mi resta addiunu 'u niputeddhu...perché non restasse a digiuno il nipotino). Rivedere e pensare quanto riguardo avessero gli amici del nonno verso un bambino, un cucciolo incappottato, ma ancora coi calzoni corti perché era d'uso che i pantaloni lunghi si comprassero dopo i tredici anni, quando cominciava "l'indecente" crescita del pelo sulle gambe (la tradizione era da rispettare anche se  quel freddo gelido di gennaio ci attanagliava  e bloccava ogni movimento dai piedi alla cintola con continue orripilazioni (ndi rrizzava 'u pilu...ci si alzavano i peli).
La descrizione e i particolari della Grotta, la spettabile cantina, mi porta a ricordarne altre frequentate dal nonno e dai suoi cari amici, ch'erano di "moda" nei rioni della nostra città, Reggio Calabria, altrettanto rispettabili : 
"A putija i Buscìca", un signore il cui vero cognome era Morabito, dalla pancia gonfia come una vescica (buscìca in dialetto reggino), calvo e sempre sorridente, dislocata su Sbarre Centrali, esattamente dove adesso c'è l'autosalone ZEMA 2. 
Altro esercizio, sempre pieno di avventori "cantanti", era detto "nta Manfricia", gestito da una vecchietta grassa e unta, con gli occhi semichiusi o, addirittura, monca di un occhio che nascondeva bene, il cui cognome era Mafrici (da qui deformato in Manfricia), dislocato nella discesa nord del ponte di San Pietro, Via Agamennone Spanò, esattamente dove adesso c'è la rinomata dolceria Sarnè (ampliazione per i "sbarroti", il nipote che l'aiutava in bottega, adesso gestisce la pizzeria "U Rais", quasi di fronte villa Guarna). 
E poi, come si fa a non ricordare la cantina "nti Priolu" ? Rinomata e più elegante delle altre posta esattamente dove adesso c'è il locale "la Cantina Della Suocera", in via dei Pritanei da cui si arriva alla Croce Rossa Italiana, sotto piazza Duomo, che era gestita, probabilmente in affitto, da un signore ex barbiere, sugli anni, con occhi azzurri, elegantemente vestito con giacca e cravatta, ma con un braccio colpito da poliomielite e che, comunque, non gli impediva le méscite dirette dalle grandi botti allineate su due lunghe pareti. 
Ho nominato solo queste quattro cantine perché erano nella "giurisdizione" di mio nonno, abitante in Vico Ceci, dietro la Chiesa Di San Pietro e a ridosso delle mura del carcere che, per chi non lo sapesse, si chiama "Carcere Giudiziario Giuseppe Panzera" (nome del ministro della giustizia del 1932), ma questo è un altro discorso.
Adesso "i putii ru vinu" (le osterie) sono difficili da trovare, credo che non esistano più, se qualche moderna bottiglieria è anche adibita alla méscita di vini, non è la stessa cosa, magari ci trovi dentro i videogiochi o le macchine mangia soldi, il proprietario, smartphone alla mano, collegato a Facebook o a whatsapp o altra diavoleria moderna. Per cui credo che, se dovessero tornare dall'al di la, mio nonno e tutti i "sbarroti zzappagghiuni i butti" (abitanti di Sbarre, moscerini delle botti), rimarrebbero profondamente impressionati dalla vita dei nostri giorni e si rammaricherebbero di non vedere nella nuova urbanistica della città un folto dislocamento di quei loro ritrovi, dove si poteva reperire del buon liquido "russu cu' 'nu bbonu mbuccateddhu nto palatu"(rosso con un buon sapore al palato), che davano amicizie e calore, che non avevano insegne importanti, ma semplici nomignoli come "MINDU", "BUSCICA", "MANFRICIA", "PRIOLU"...."E DDU SCALUNI" (Sbarre Inferiori, di fronte alla pasticceria Fragomeni), 'U PIRUNEDDHU (rione pescatori), I TRI SORU (a Gebbione), 'A MALAVENDA (rione Modena), ecc.

Salvatore Marrari  RC 24 aprile 2015









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